venerdì 27 novembre 2009

SCANDALOSA SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE

DA UNICOBAS:ATA EX EELL:SCANDALOSA SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE
ATA: nuova scandalosa sentenza politica della Corte Costituzionale
Con la sentenza n.°311/2009, resa nota ieri, la Corte non fa altro che ribadire pedissequamente quanto affermato nella finanziaria 2006, cioè la negazione del diritto elementare dei lavoratori provenienti dagli Enti Locali e spostati d´ufficio nel comparto scuola, ad un inquadramento in tutto identico a quello degli altri lavoratori settore. I lavoratori ATA (ausiliari, tecnici ed amministrativi) e ITP (insegnanti tecnico pratici), si sono autocostituiti in Coordinamento Nazionale ATA e ITP ex EE.LL., con lo scopo di rilanciare le iniziative di lotta per il riconoscimento di un diritto costituzionale negato. E´ infatti la Costituzione a garantire che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3).
Neppure due anni or sono, in campagna elettorale, pressoché tutti i candidati hanno riconosciuto la assoluta inadeguatezza delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti in Italia. Oggi va ricordato nuovamente alla classe politica italiana l´esistenza di una (sotto)categoria di lavoratori a tempo indeterminato che (nel pubblico impiego e non nei call centers), con 20 e più anni di anzianità di servizio, percepiscono salari di 900 € mensili proprio per responsabilità precipua di chi ha partorito (e mai modificato) quell´aborto che è il comma 218 della Legge Finanziaria 2006, la quale ha stravolto l´iter giudiziario dei ricorsi, sino alle ben 8 sentenze della Corte di Cassazione del 2005, tutte favorevoli ai lavoratori.
Questa sentenza ci fa vergognare di appartenere ad un Paese dove la giustizia è solo un gioco, gestito sul tavolo "bipartizan" di maggioranze di governo e false opposizioni. Della cosa è stata da tempo investita la Suprema Corte Europea: vedremo se anche la UE - ma sarà difficile sia scesa al medesimo livello - si è per caso "italianizzata". Nel frattempo la vertenza la riapriamo nelle scuole: con il Coordinamento Nazionale che ne esprime le ragioni, stiamo vagliando le iniziative da mettere in atto al più presto. I 70.000 ATA provenienti dagli Enti Locali sapranno rispondere come di dovere a questo arbitrio assoluto, reso possibile anche dall´insipienza dei sindacati autonomi della Scuola e dall´aperta connivenza dei Confederali, artefici dell´accordo-truffa che ha azzerato l´anzianità di servizio maturata da collaboratori, altro personale ed insegnanti tecnico-pratici negli Enti Locali di provenienza al momento del passaggio allo Stato e poi capaci persino di lucrare sui ricorsi che hanno denunciato questo scandalo.

Stefano d´Errico (Segretario Nazionale Unicobas)


COMMENTO SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE

Cari colleghi,come avete visto,mai dire gatto se non è nel sacco.Ora vediamo il da farsi.Chiedo a tutti cosa bisogna fare,principalmente ai refenti provinciali .per far ciò v'invito a contribuire nella discussione aperta all'interno del gruppoprivato che ho creato su face book

http://www.facebook.com/group.php?gid=51684511965&ref=mf

é uno strumento in più per scambiarci informazioni oltre i blog esistenti.enzo

giovedì 26 novembre 2009

SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE- UDIENZA 3 NOVEMBRE 2009

Sentenza 311/2009
Giudizio
Presidente AMIRANTE - Redattore TESAURO
Udienza Pubblica del 03/11/2009 Decisione del 16/11/2009
Deposito del 26/11/2009 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:
Art. 1, c. 218°, della legge 23/12/2005, n. 266.
Massime:
Titoli:
Atti decisi:
ordd. 400/2008; 15, 16, 17, 18, 19/2009
SENTENZA N. 311 ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del 4 settembre 2008 e dalla Corte d’appello di Ancona con n. 5 ordinanze del 26 settembre 2008, rispettivamente iscritte ai numeri 400 del registro ordinanze 2008, 15, 16, 17, 18 e 19 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione di N. P. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2009 e nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Isacco Sullam, Nicola Zampieri e Arturo Salerni per N. P. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 4 settembre 2008 (r.o. n. 400 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli articoli 117, primo comma, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (infra, anche CEDU o Convenzione europea), resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), il quale ha stabilito, tra l’altro, che il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (denominato ATA e d’ora in poi così indicato) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento.
2. – La Corte rimettente premette in fatto che la ricorrente, appartenente al personale ATA, già dipendente di ente locale e passata alle dipendenze dell’amministrazione scolastica statale ai sensi dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, aveva chiesto, con ricorso al Tribunale di Venezia del 27 marzo 2003, proposto nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di accertare il proprio diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio maturata al tempo del trasferimento del rapporto di lavoro, con condanna dell’amministrazione statale al pagamento delle conseguenti differenze retributive dal 1° gennaio 2000, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Il Tribunale, con la sentenza di cui è chiesta la cassazione, aveva accertato «l’invalidità e la conseguente inefficacia» della disposizione contenuta nell’art. 3, comma 1, dell’accordo tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (d’ora in poi ARAN) ed i rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, recepito nel decreto ministeriale 5 aprile 2001, per contrasto con quanto stabilito dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.
La Corte di cassazione espone che l’amministrazione, in prossimità dell’udienza, ha invocato la sopravvenuta interpretazione autentica dell’art. 8 citato, ad opera dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266.
2.1. – A giudizio della Corte rimettente tale norma possiede i requisiti essenziali delle norme interpretative, in quanto procede a riscrivere una regola destinata ad operare in termini generali per le controversie in corso e per quelle future. Il citato comma 218 avrebbe l’espresso intento di precisare e chiarire la portata della norma interpretata, limitandosi ad intervenire, con effetti retroattivi, soltanto su quei suoi profili applicativi che avevano originato un contenzioso. Il contenuto normativo della disposizione corrisponderebbe ad uno dei possibili significati ascrivibili alla disposizione interpretata, in quanto il legislatore avrebbe optato per una lettura restrittiva del sintagma «anzianità giuridica ed economica» di cui al comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.
Ciò posto, in punto di rilevanza il giudice rimettente sottolinea la necessità di dover dare applicazione, nel giudizio a quo, allo ius superveniens, mediante accoglimento del ricorso, con la conseguenza di dover, peraltro, operare un revirement rispetto alle conclusioni cui era pervenuta, in ordine al senso da attribuire alla disposizione del comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999. La Corte di cassazione, infatti, sia pure con percorsi argomentativi diversi, aveva affermato «che la garanzia del riconoscimento ai fini giuridici, oltrechè economici, dell’anzianità maturata presso gli enti locali, in favore dei dipendenti coinvolti nel passaggio dai ruoli di tali enti in quelli del personale statale, in quanto apprestata dalla legge, non potesse essere ridotta, in forza di norme di rango inferiore, alla sola garanzia del riconoscimento economico dell’anzianità, e risolversi nell’attribuzione al dipendente del c.d. maturato economico, così come disposto nel d.m. 5 aprile 2001 conformemente ai contenuti dell’Accordo 20 luglio 2000 fra l’ARAN e le OO.SS.».
Ancora, a giudizio della Corte i dubbi di legittimità costituzionale della norma interpretativa, peraltro sollecitati dalla controricorrente, in relazione alla violazione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo, investono la norma di legge della quale dovrebbe farsi applicazione per la decisione del ricorso.
Non sarebbe, invece, configurabile una questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, per stabilire se la fattispecie a giudizio sia riconducibile o meno alla direttiva 77/187/CEE (modificata dalla direttiva 98/50/CE), in quanto la vicenda del trasferimento, previsto dalla legge n. 124 del 1999, sarebbe estranea al campo di applicazione delle direttive comunitarie in materia di trasferimento d’azienda.
2.2. – La ritenuta rilevanza della questione nel giudizio a quo conduce la rimettente a sottoporre il dubbio di legittimità costituzionale allo scrutinio di non manifesta infondatezza.
La Corte di cassazione ricorda, in proposito, che sebbene già in precedenza, con la sentenza 16 gennaio 2008 n. 677, essa avesse concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione, nuove argomentazioni, anche addotte dalla parte, impongono di affrontare nuovamente la questione, in quanto la funzione nomofilattica del giudice di legittimità si atteggia in maniera diversa a seconda che la Corte sia chiamata a pronunciarsi sull’esatta osservanza della legge, ovvero a valutare la manifesta infondatezza di un dubbio di legittimità costituzionale della stessa legge. Ciò, in quanto in tal caso si tratterebbe soltanto di ritenere o meno manifestamente infondato “un dubbio”, formula questa, che impone al giudice il dovere di sollevare la questione di costituzionalità, tutte le volte in cui, esclusa un’interpretazione costituzionalmente orientata, residui un “non implausibile argomento”, che deponga in senso contrario.
Tanto premesso, la Corte procede quindi a valutare se l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 contrasti con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la CEDU, che, all’art. 6, comma 1, prescrivendo il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie.
Ad avviso della rimettente, occorre verificare se la disposizione in esame violi l’obbligo dello Stato italiano di rispettare l’art. 6, comma 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che fornisce concretezza e contenuto al parametro costituzionale invocato del rispetto degli obblighi internazionali.
Il giudice di legittimità sottolinea come in precedenza la sentenza n. 677 del 2008 aveva negato che l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 violasse l’obbligo imposto dall’art. 6, comma 1, della Convenzione, dal momento che non sarebbe sussistito alcun elemento che inducesse a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulle controversie in corso. Piuttosto, risultava che il legislatore aveva provveduto ad un complessivo riassetto organizzativo, nell’ambito del quale dovevano ritenersi sussistenti «pressanti ragioni di interesse generale» che rendevano quindi legittimo l’intervento retroattivo.
Diversamente, la Corte di cassazione, nell’odierna ordinanza osserva che, sebbene sia vero che la sentenza sul caso Scordino c. Italia, n. 36813/1997, ed i precedenti in essa richiamati affermino che il divieto di leggi retroattive riguarda l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, finalizzata ad una determinata soluzione delle controversie in corso, altrettanto vero è che tale giurisprudenza non richiede anche che la disposizione retroattiva sia «esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso», né che tale scopo sia comunque enunciato. Ciò, in particolare si desumerebbe dal fatto che in tali precedenti «la conclusione che l’intervento legislativo volta a volta esaminato costituisse una non consentita ingerenza del potere legislativo sull’esercizio della giurisdizione viene raggiunta sulla scorta, da una parte, dell’esame del risultato che, nel procedimento in relazione al quale viene lamentata l’ingerenza, ha avuto l’applicazione della disposizione denunciata e, dall’altra, della considerazione che lo Stato legislatore era, al tempo stesso, parte di quel procedimento e la disposizione interpretativa assegnava alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato – parte», come peraltro reso manifesto dalla più recente giurisprudenza della Corte europea (sentenza SCM Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno 2007, ricorso n. 12106/03).
A giudizio della Corte rimettente, proprio tali condizioni ricorrerebbero nel caso in esame, in quanto il notevole contenzioso in atto, inerente alla norma di interpretazione autentica, in relazione alla quale più volte la medesima Corte ha già avuto modo di pronunciarsi, unitamente al rilevante numero di ricorsi pendenti aventi ad oggetto proprio l’interpretazione di detta normativa, indurrebbero ragionevolmente a ritenere che la definizione di tale contenzioso «nel senso, favorevole allo Stato amministrazione, imposto dalla norma interpretativa, rientrasse certo tra le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione di quest’ultima norma».
Non solo, ma l’esigenza di «governare una operazione di riassetto organizzativo» non potrebbe comunque integrare le «imperiose ragioni d’interesse generale», richieste dalla giurisprudenza di Strasburgo come condizione per superare il divieto d’ingerenza. Del resto, nel procedimento legislativo non vi sarebbe traccia alcuna di siffatta esigenza o di altre ragioni “imperiose o meno”, come sarebbe dimostrato dal fatto che tale comma, non presente nell’originario disegno di legge governativo, risulta inserito dalla relatrice nella seduta della V Commissione e votato nei successivi passaggi, caratterizzati dal voto “di fiducia”.
Tale conclusione non potrebbe essere esclusa neppure dalla considerazione che il legislatore sarebbe comunque libero di emanare norme interpretative che incidano, in materia civile, su diritti attribuiti dalle leggi in vigore, poiché nel caso in esame non si tratterebbe di ciò, quanto piuttosto dell’intervento, a mezzo di leggi retroattive, sui giudizi pendenti dei quali è parte lo Stato-amministrazione. Infatti, il senso della giurisprudenza della Corte europea è che «la parità delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di controversie», scopo questo desunto «dall’incidenza oggettiva che la norma denunciata ha sull’esito di controversie pendenti e dalla qualità di parte dello Stato-amministrazione in tali controversie».
Del resto, a giudizio della rimettente, il fatto che la retroattività sia coessenziale alle norme d’interpretazione autentica non sarebbe di ostacolo al rispetto del vincolo in questione, in quanto tale vincolo esigerebbe soltanto che «il legislatore escluda dall’ambito di applicazione della norma interpretativa o, più in generale, della norma dichiarata retroattiva i processi in corso alla data di entrata in vigore della norma, secondo uno schema che il legislatore nazionale ben conosce ed ha più volte praticato».
A nulla varrebbe la possibile obiezione secondo cui una simile tecnica legislativa provocherebbe un proliferare d’iniziative giudiziarie volto a rendere immodificabile una situazione di vantaggio, in quanto ciò sembrerebbe postulare «uno Stato-legislatore che, in rapporti di cui sia parte come Stato-amministrazione, accordi una situazione di vantaggio per non adempiere l’obbligazione che su di esso Stato-amministrazione ne deriva, riservandosi poi d’intervenire con legge interpretativa».
Da ultimo, la Corte di cassazione evidenzia come la manifesta infondatezza della questione non avrebbe potuto comunque essere motivata sulla base della sentenza n. 234 del 2007 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato non fondata la questione, in quanto relativa a parametri di costituzionalità diversi da quello oggi evocato.
3. – Con atto depositato il 30 dicembre 2008, si è costituita in giudizio la parte privata, N. P., chiedendo che la norma sia dichiarata incostituzionale. A suo giudizio, infatti, la disposizione in esame deve ritenersi costituzionalmente illegittima in quanto incompatibile con le disposizioni della CEDU, norme interposte atte ad integrare il parametro costituzionale, così come interpretate dalla Corte europea, e dunque in contrasto con gli artt. 10, 117 e 111 Cost.
La norma sarebbe illegittima per violazione dei principi della “parità delle armi”, di certezza del diritto e di indipendenza del giudice, desunti dall’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo al diritto all’equo processo, contenuto nell’art. 6 della CEDU.
La Corte di Strasburgo, infatti, avrebbe in più occasioni sottolineato come lo Stato non possa introdurre slealmente una interpretazione normativa a suo favore della norma sub iudice, nei giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi o giurisprudenziali. L’applicazione dello ius superveniens potrebbe ritenersi lecita soltanto in presenza di «impérieux motifs d’intérét général», non ravvisabili in «mere esigenze di natura finanziaria connesse al rischio derivante dalla soccombenza nei giudizi avviati nei confronti dello Stato amministrazione».
La parte privata, inoltre, precisa come in contrario non possa richiamarsi la circostanza che il principio del maturato economico fosse già contenuto nell’accordo del 20 luglio 2001, poichè tale atto sarebbe «intervenuto nell’ambito del quadro normativo tracciato dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria per il 1990), commi da 1 a 4, che contempla esclusivamente obblighi di informazione e di consultazione», ed anche perchè esso risulterebbe inteso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca come contratto derogatorio rispetto all’art. 8 della legge n. 124 del 1999, ritenuto ammissibile in forza della pretesa riconducibilità della fattispecie in esame all’art. 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992 n. 421).
Qualunque legge interpretativa che interferisca sulle iniziative giudiziarie promosse nei confronti dello Stato sarebbe, dunque, lesiva dell’autonomia della funzione giurisdizionale e del ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, poiché, anche qualora sussistano situazioni di incertezza nell’applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali, esclusivamente a tale Corte competerebbe risolvere tali contrasti.
Ancora, si aggiunge, il rapporto tra la normativa interna e quella della Convenzione europea, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte, è regolato dal principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, desumibile dagli articoli 1 e 13, nonché dagli artt. 19, 34 e 35 della medesima Convenzione, che affidano alla giurisdizione del giudice interno il compito di primo tutore dei diritti dell’uomo, con conseguente obbligo di disapplicare la disciplina interna non conforme.
Nel caso di specie la legge finanziaria per il 2006 avrebbe certamente violato l’art. 6 della Convenzione europea, atteso che non solo la norma sarebbe contenuta in una legge normalmente deputata «a far cassa», ma sarebbe stata anche inserita con un «super-emendamento» governativo ed approvata ricorrendo al voto di fiducia.
Tale soluzione interpretativa, inoltre, in quanto intervenuta dopo quasi sei anni dall’entrata in vigore della norma interpretata, avrebbe inciso sul “diritto vivente” formatosi in relazione al computo dell’anzianità maturata nel comparto enti locali.
A giudizio della parte, non varrebbe in contrario richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 234 del 2007 poiché in tale decisione si darebbe comunque atto che «la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, rappresentava una deroga al principio generale vigente all’epoca della sua entrata in vigore, rispetto alla quale la norma ora censurata si presenta come ripristino della regola generale». La Corte costituzionale avrebbe, dunque, riconosciuto, con una sentenza «aspramente criticata», che l’interpretazione autentica fornita dalla legge finanziaria aveva carattere innovativo, salvo sostenere poi la legittimità dell’efficacia retroattiva dell’interpretazione in quanto in linea con il principio del maturato economico introdotto con valenza generale dalla legge 11 luglio 1980, n. 312. Norma questa, che non avrebbe nulla a che vedere con la fattispecie del trasferimento del personale ATA, in quanto disposizione disciplinante la sola mobilità compartimentale e neppure in vigore al momento dell’adozione della citata legge n. 124 del 1999.
La parte privata, inoltre, sottolinea come non ci si trovi affatto in presenza di un’esigenza di governare una operazione di riassetto organizzativo di ampia portata, non solo perché il passaggio del personale risale al 1° gennaio 2000, ma anche perché nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna “riorganizzazione”, poiché i bidelli passati nei ruoli ministeriali già lavoravano nelle scuole statali e hanno continuato a svolgere le medesime mansioni.
Si afferma, poi, che anche il presunto danno finanziario quantificato dall’Avvocatura dello Stato in alcuni milioni di euro, non potrebbe integrare gli «impérieux motifs d’intérét général», in quanto la Corte di Strasburgo avrebbe con chiarezza precisato che un motivo finanziario non consentirebbe, di per sé solo, di giustificare un intervento legislativo di questo tipo.
Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., si riconosce che la Corte costituzionale ha già avuto occasione di evidenziare che «le disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione che ad esse attribuisce la Corte europea dei diritti dell’uomo, integrando uno degli obblighi internazionali, cui si riferisce il precetto costituzionale, possono assumere il rango di fonte integrativa del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost., determinando l’incostituzionalità della legge ordinaria con essa contrastante». Tuttavia, come riconosciuto dal Governo nella relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano per l’anno 2007, la giurisprudenza della Corte non avrebbe risolto in via definitiva la problematica dei rapporti fra le norme CEDU e la normativa costituzionale e ordinaria, in quanto la posizione espressa dalla Corte costituzionale non «appare in sintonia con quella nella quale si pone la stessa Corte europea, nelle sue sentenze e nelle dichiarazioni del suo Presidente».
Dal confronto tra i due regimi contrattuali risulterebbe, inoltre, evidente che il Ministero, per effetto dell’inserimento nei propri ruoli del personale ATA prima dipendente dagli enti locali, avrebbe beneficiato di ingenti risparmi nel monte stipendi complessivo, derivanti dalla mancata erogazione di tutti quei compensi individuali accessori previsti dai soli contratti collettivi del comparto enti locali e coperti solo in parte dal maggiore salario tabellare.
Da ultimo, la parte privata assume che la questione comporta profili di valutazione costituzionale e di conformità del nostro ordinamento con quello comunitario, in quanto i diritti garantiti dall’art. 6 della Convenzione europea sarebbero stati “comunitarizzati” dall’art. 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione Europea (al quale fa rinvio il successivo art. 46 del Trattato stesso), nonché dal Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con la legge 2 agosto 2008, n. 130, recante il recepimento della CEDU, quale norma fondamentale di diritto comunitario.
Del resto, la stessa Corte di giustizia avrebbe statuito che il diritto ad un equo processo, come si desume, in particolare, dall’art. 6 della CEDU, costituisce un diritto fondamentale che l’Unione europea rispetta in quanto principio generale in forza dell’art. 6, paragrafo 2, TUE. Sicché, la mancata declaratoria della incostituzionalità della norma in esame si concretizzerebbe in una violazione dell’art. 6 del Trattato e dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.
4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 5 gennaio 2009 ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.
La difesa erariale, richiamando la sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino c. Italia n. 36813/1997, ritiene che l’interpretazione di tale decisione sostenuta nell’ordinanza di rimessione sia forzata e ricorda che la Corte di cassazione, con la sentenza n. 677 del 2008, ha già dichiarato manifestamente infondata la medesima questione. In quest’ultima decisione, prosegue ancora il Presidente del Consiglio dei ministri, i giudici di legittimità hanno affermato che «emerge con chiarezza che il legislatore nazionale è restato entro i limiti consentitigli dalla Convenzione europea», non essendovi alcun elemento che induca a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso, rivelandosi piuttosto l’esigenza di «armonizzare situazioni lavorative differenziate all’origine ma bisognose di regole unitarie, una volta determinatasi la confluenza dei lavoratori in un unico comparto, in conformità, del resto, al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, dove tale principio ha un notevole rilievo teorico e pratico». In altri termini, secondo la Corte di cassazione, con la norma in esame il legislatore avrebbe provveduto a «governare una operazione di riassetto organizzativo di ampia portata» così da far ritenere «palesemente ravvisabili, nel caso di specie, le pressanti ragioni di interesse generale che abilitano, secondo la Corte europea, anche interventi retroattivi, tanto più quando questi non comportino vanificazione pressoché totale di crediti già sorti ma implichino una rimodulazione del diritto in una delle direzioni in astratto plausibili anche secondo la legge precedente».
Sulla base di tali indicazioni la difesa erariale puntualizza che, nel caso in esame, non può ritenersi violato il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria della controversia desumibile dalla sentenza cosiddetta Scordino, poiché «scopo dell’intervento legislativo non era affatto, in via primaria, […] quello di influenzare l’esito di una controversia, bensì quello […] di regolamentare una volta per tutte, esprimendo quale fosse l’originario ed autentico intento del legislatore, una complessa vicenda di passaggio di personale dagli enti locali allo Stato». Tale scopo è stato perseguito – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – mediante una legge interpretativa, con cui si è puntualizzato quale fosse il reale significato da attribuire all’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, in linea con l’orientamento espresso dalle parti sociali nell’accordo del 20 luglio 2000 oltre che da parte della giurisprudenza. La difesa erariale sottolinea, altresì, come nella specie siano ravvisabili le ragioni di interesse generale corrispondenti all’esigenza di assicurare che il trasferimento del personale ATA dipendente degli enti locali nei ruoli dello Stato, pur avvenendo senza maggiori oneri per le finanze dello Stato, consenta il mantenimento delle posizioni giuridiche spettanti al personale nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali, salvaguardando il livello retributivo del dipendente. Infatti, proprio in considerazione della diversa struttura della retribuzione, l’una, quella di provenienza, calcolata in base alle funzioni e ai compiti realmente svolti, l’altra, quella di destinazione, commisurata in base all’anzianità di servizio, occorreva prevedere una precisa regolamentazione idonea a garantire, senza maggiori oneri per lo Stato, uniformità di trattamento.
5. – In prossimità dell’udienza pubblica sia la parte privata che l’Avvocatura dello Stato hanno depositato memorie, rispettivamente in data 12 ottobre 2009 e 13 ottobre 2009, confermando le conclusioni già formulate, e ribadendo le argomentazioni svolte a sostegno delle proprie ragioni.
6. – Analoghe questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 sono state sollevate, con cinque distinte ordinanze (reg. ord. nn. 15, 16, 17, 18 e 19 del 2009), di identico contenuto, adottate il 26 settembre 2008 dalla Corte d’appello di Ancona, per la trattazione delle quali la Corte è stata convocata in camera di consiglio.
Il giudice rimettente premette, in fatto, che il Tribunale di Ascoli Piceno aveva respinto la domanda di alcuni dipendenti di un ente locale, transitati nei ruoli dell’amministrazione dello Stato ex art. 8 della legge n. 124 del 1999, di riconoscimento del diritto alla attribuzione della anzianità prestata presso l’ente locale di provenienza, ai fini della progressione economica e stipendiale nel comparto scuola, e di corresponsione delle relative differenze economiche. Avverso tale sentenza i dipendenti proponevano appello dinanzi all’odierno rimettente, censurando l’interpretazione data dal giudice di primo grado alla norma predetta nonché agli accordi sindacali ed ai decreti ministeriali successivamente intervenuti in materia ed insistendo per l’accoglimento della domanda. L’amministrazione appellata invocava l’applicazione dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, di interpretazione autentica dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, e richiamava la pronunzia della Corte costituzionale n. 234 del 2007 che aveva respinto l’eccezione di illegittimità costituzionale della citata norma, mentre le parti appellanti prospettavano questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, sotto il profilo del contrasto con l’art. 6 della CEDU.
Il rimettente, pronunciandosi sulla prospettata questione ed argomentatane la rilevanza, osserva che il dubbio di contrasto della norma denunciata con la Costituzione deriva dal rilievo che l’art. 117, primo comma, Cost. impone allo Stato legislatore il rispetto dell’obbligo internazionale assunto con la sottoscrizione e ratifica della CEDU, il cui art. 6, comma 1, prescrive il diritto di ogni persona ad un giusto processo dinanzi ad un giudice indipendente ed imparziale, con conseguente obbligo del potere legislativo di non ingerirsi nella amministrazione della giustizia per influire sull’esito di una controversia o di una categoria di esse.
Il rimettente ricorda che l’art. 6, comma 1, della CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino c. Italia n. 36813/1997, nel prescrivere il diritto al giusto processo, se da un lato non assicura nel processo civile l’immutabilità della norma da applicare per tutti i procedimenti in corso, obbliga dall’altro lo Stato a non esercitare un’ingerenza normativa finalizzata ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l’intervento retroattivo sia giustificato da «motivi imperiosi di carattere generale».
7. – Anche in questi giudizi, con atto depositato il 23 febbraio 2009, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa erariale, ricordando che analoga questione è stata sollevata dalla Corte di cassazione, fa integrale richiamo alle argomentazioni svolte nell’atto di intervento già spiegato in quella sede, atte a confutare la fondatezza della questione di legittimità costituzionale anche nel caso in esame. Aggiunge, inoltre, che la medesima norma di legge è stata già oggetto di controllo di costituzionalità per diverse, ma connesse motivazioni (sentenza n. 234 del 2007 ed ordinanza n. 400 del 2007) e che la stessa Corte di cassazione, con la sentenza n. 677 del 2008, ha dichiarato manifestamente infondata la medesima questione. In quest’ultima sentenza, ribadisce ancora il Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte ha affermato come non risulti alcun elemento che induca a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso, rivelandosi piuttosto l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative differenziate all’origine, ma bisognose di regole unitarie.
Considerato in diritto
1. – Vengono all’esame della Corte più ordinanze di rimessione – la prima trattata all’udienza pubblica del 3 novembre 2009 e le altre nella camera di consiglio del successivo 4 novembre – con le quali la Corte di cassazione (r.o. n. 400 del 2008) e la Corte di appello di Ancona (r.o. nn. 15, 16, 17, 18 e 19 del 2009) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006).
1.1. – In virtù dell’identità delle questioni sollevate va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica pronuncia.
2. – La norma censurata interpreta l’art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), che, nel disciplinare il trasferimento di dipendenti di enti locali nei ruoli statali del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) del settore scuola, ne prevedeva l’inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti, consentendo l’opzione per l’ente di appartenenza, qualora le qualifiche e i profili non avessero trovato corrispondenza. La norma aveva stabilito – questo è il punto controverso – che a detto personale è riconosciuta «ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza». Successivamente, un accordo tra l’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e le organizzazioni sindacali, recepito da uno dei decreti ministeriali di attuazione della legge n. 124 del 1999 (decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del bilancio e della funzione pubblica del 5 aprile 2001), ai fini del primo inquadramento, aveva considerato il principio del maturato economico in luogo di quello della complessiva anzianità conseguita. Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso e la stessa Corte di cassazione aveva in più occasioni negato che il diritto al riconoscimento dell’anzianità «ai fini giuridici ed economici» attribuito dalla legge n. 124 del 1999 potesse essere ridotto a quello del maturato economico da una disciplina di rango inferiore.
È su questo specifico quadro normativo e giurisprudenziale che ha inteso intervenire il legislatore con la norma interpretativa qui censurata. Tale disposizione, infatti, allo scopo di ribadire con legge ordinaria quanto già prefigurato dal decreto ministeriale sulla base della posizione espressa dalle organizzazioni sindacali, stabilisce: «il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».
3. – La Corte di cassazione, e così anche gli altri giudici rimettenti, dubitano della legittimità costituzionale della disposizione di legge interpretativa, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (infra, anche CEDU o Convenzione europea).
Tale norma internazionale, che sancisce il principio del diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».
Ad avviso dei rimettenti, il legislatore nazionale avrebbe emanato una norma interpretativa in presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione sfavorevole allo Stato, in tal modo violando il principio di «parità delle armi», non essendo l’invocata esigenza di «governare una operazione di riassetto organizzativo» del settore interessato dell’amministrazione pubblica sufficiente ad integrare quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che permetterebbero di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
4. – Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, non potendo essere prese in considerazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le censure svolte solo dalle parti del giudizio principale (per tutte, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006, n. 349 del 2007).
Sono pertanto inammissibili le questioni sollevate dalla parte privata costituitasi nel giudizio di cui all’ordinanza n. 400 del 2008, con riferimento agli artt. 10 e 111 Cost., parametri non invocati dai giudici rimettenti.
5. – Nel merito la questione non è fondata.
6. – Il contenuto delle censure impone, in linea preliminare, di ricordare quale sia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il rango e l’efficacia delle norme della CEDU ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di Strasburgo, nell’interpretazione ed applicazione della Convenzione europea.
Siffatta questione è stata affrontata e decisa, di recente, dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali hanno rilevato che l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.
Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/03).
Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto.
Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta a questa Corte il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU, dal momento che la diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione europea all’art. 53.
In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU.
Questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
7. – Posta questa premessa, occorre individuare la natura, la portata e gli obiettivi perseguiti dalla norma censurata, tenendo conto che la disciplina del trasferimento del personale ATA di cui alla legge n. 124 del 1999 e la norma che ha interpretato la disposizione qui rilevante hanno già formato oggetto di scrutinio da parte di questa Corte, sia pure in relazione a parametri costituzionali diversi dall’art. 117, primo comma, Cost., qui invocato. La sentenza n. 234 del 2007 e le ordinanze n. 400 del 2007 e n. 212 del 2008 hanno, rispettivamente, dichiarato non fondate e manifestamente infondate le questioni di costituzionalità della predetta norma interpretativa sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 Cost.
Per quanto qui interessa, la disciplina dettata dall’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, è stata ricondotta all’esigenza di armonizzare, con una normativa transitoria di primo inquadramento, «il passaggio del personale in questione da un sistema retributivo disciplinato a regime ad un altro sistema retributivo ugualmente disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per quanto attiene al profilo economico, i livelli retributivi maturati e attribuendo agli interessati, a partire dal nuovo inquadramento, i diritti riconosciuti al personale ATA statale. Tutto ciò allo scopo di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti ATA, al di là delle rispettive provenienze e, comunque, salvaguardando il diritto di opzione per l’ente di appartenenza nel caso di mancata corrispondenza di qualifiche e profili» (sentenza n. 234 del 2007).
In tale contesto, secondo questa Corte, l’inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale ATA, in ragione del solo cosiddetto maturato economico, costituiva una delle possibili e plausibili varianti di lettura della norma, avallata, tra l’altro, in sede di accordo siglato tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e i rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni dei dipendenti. Ciò, in particolare, considerando che tale principio era stato introdotto, con valenza generale, già dalla legge 11 luglio 1980, n. 312, recante «Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato».
Le pronunce sopra richiamate hanno escluso la sussistenza di un legittimo affidamento con riferimento al trattamento retributivo derivante dalla valutazione, ai fini giuridici ed economici, dell’intera anzianità maturata presso gli enti di provenienza, in considerazione sia del tipo di interpretazione adottata in sede di contrattazione collettiva, pressoché contestualmente all’entrata in vigore della citata legge, sia del richiamo, espresso, al principio dell’invarianza della spesa in sede di primo inquadramento del personale proveniente dagli enti locali.
Questa Corte ha dunque negato, come anche in precedenti più remoti (sentenze n. 618 del 1987 e n. 296 del 1984), che si potesse postulare l’illegittimità di qualsiasi regolamentazione transitoria che non si limitasse «alla conservazione del trattamento precedente “ad esaurimento” o alla pura e semplice applicazione illimitatamente retroattiva del trattamento nuovo: soluzioni, certo, possibili, ma non imposte dal precetto costituzionale in argomento».
Infine, la sentenza n. 234 del 2007 ha anche escluso che la disposizione interpretativa censurata desse luogo ad una disparità di trattamento fra coloro che, all’entrata in vigore della norma, avessero già ottenuto un giudicato favorevole rispetto alla disciplina applicabile e coloro che fossero soltanto in attesa della formazione del giudicato sulla loro pretesa.
8. – Occorre ora verificare in che modo la Corte europea abbia applicato l’art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è parte lo Stato.
I rimettenti ricordano, fra l’altro, la decisione relativa al caso Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno del 2007. In tale occasione la Corte europea ha ribadito che, mentre, in linea di principio, al legislatore non è precluso intervenire in materia civile, con nuove disposizioni retroattive, su diritti sorti in base alle leggi vigenti, il principio dello Stato di diritto e la nozione di processo equo sancito dall’articolo 6 della CEDU vietano l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale («impérieux motifs d’intérét général»). La stessa Corte europea ha ricordato, inoltre, che il requisito della parità delle armi comporta l’obbligo di dare alle parti una ragionevole possibilità di perseguire le proprie azioni giudiziarie, senza essere poste in condizione di sostanziale svantaggio rispetto agli avversari.
Tale orientamento, che trova i suoi precedenti nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999, censura la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all’epoca della modifica.
Questa prassi può essere suscettibile di comportare una violazione dell’art. 6 della CEDU, risolvendosi in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia. Nel caso Zielinski e altri c. Francia, in particolare (come prima nel caso Papageorgiou c. Grecia, sentenza del 22 ottobre 1997), si è riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale». La Corte europea, tuttavia, ha precisato che siffatti motivi non ricorrevano nella specie, in quanto il mero rischio finanziario, denunciato dal Governo ed espressamente indicato dalla Corte costituzionale, non consentiva di per sé che il legislatore si sostituisse alle parti sociali del contratto collettivo, oggetto del contenzioso. La Corte, quindi, verificata la sussistenza di orientamenti giurisprudenziali favorevoli ai ricorrenti, ha censurato la norma interpretativa che era sopravvenuta retroattivamente, nonostante gli accordi collettivi intervenuti in senso contrario.
Ciò posto, occorre rilevare che la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari all’art. 6 della Convenzione europea particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali.
La legittimità di simili interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003).
In questo caso, la Corte europea, di fronte ad una norma che faceva salvi con effetto retroattivo i trasferimenti di proprietà, senza indennizzo, in «proprietà del popolo» della ex D.D.R., ha concluso per la compatibilità dell’intervento con la norma convenzionale; ciò non soltanto per il motivo “epocale” del nuovo riassetto dei conflitti patrimoniali conseguenti alla riunificazione, ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto, l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito. In particolare, a seguito della denuncia di incostituzionalità della norma, il Tribunale costituzionale tedesco si era pronunciato nel senso della compatibilità della disposizione in questione con la Legge Fondamentale. Tale specifica evenienza, che mostra un’innegabile analogia con la vicenda oggi qui in esame, è stata considerata come «punto chiave della controversia». La Corte europea ha riconosciuto che il ricorrente aveva avuto accesso a tribunali indipendenti avvicendatisi nei vari gradi, e soprattutto all’organo di giustizia costituzionale, sicchè ha osservato che «nel suo complesso», il procedimento in questione aveva rivestito i caratteri di equità, conformi al dettato dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
In altri casi, nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore.
Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito (utilizzata mutatis mutandis anche nella citata pronuncia Forrer-Niederthal c. Germania), nella quale è stato ritenuto che l’adozione di una disposizione interpretativa può essere considerata giustificata allorché lo Stato, nella logica di interesse generale di garantire il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che l’intenzione originaria del legislatore fosse, in quel caso, sovvertita da disposizioni fissate in circolari.
Nello stesso solco si pone la sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia, in cui le circostanze del caso di specie non erano identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. La pronuncia ha affermato che l’intervento del legislatore non aveva inteso sostenere la posizione assunta dall’amministrazione dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico di diritto, al fine di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione.
Il caso viene, quindi, assimilato a quello National & Provincial Building Society del 1997, dove l’intervento del legislatore era giustificato dall’obiettivo finale di «riaffermare l’intento originale del Parlamento». La Corte ha ritenuto che la finalità dell’intervento legislativo fosse quindi quella di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore a sostegno di un principio di perequazione, aggiungendo che gli attori non avrebbero potuto validamente invocare un “diritto” tecnicamente errato o carente, e dolersi quindi dell’intervento del legislatore teso a chiarire i requisiti ed i limiti che la legge interpretata contemplava.
9. – In considerazione dei principi enunciati dalla Corte europea, nonché della ricostruzione della portata e degli obiettivi della norma qui censurata, già operata da questa Corte con la citata sentenza n. 234 del 2007, il contrasto denunciato dalla Corte di cassazione e dagli altri giudici rimettenti non sussiste.
Deve infatti escludersi l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione europea, come peraltro riconosciuto da una parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 gennaio 2008 n. 677). Dal confronto fra i principi espressi dalla Corte europea e le condizioni e finalità dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, emerge come il legislatore nazionale non abbia travalicato i limiti fissati dalla Convenzione europea. La vicenda normativa in esame non solo non determina una reformatio in malam partem di una situazione patrimoniale in precedenza acquisita, dal momento che i livelli retributivi già raggiunti vengono oggettivamente salvaguardati, ma si dimostra coerente con l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative tra loro differenziate all’origine, conformemente al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico.
Va dunque ribadito che la legge n. 124 del 1999 ha inteso governare una particolare operazione di riassetto organizzativo riguardante un ampio numero di soggetti. La disposizione di legge censurata ha contribuito a soddisfare l’indiscutibile interesse generale a rendere tendenzialmente omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti del ruolo statale, al di là delle rispettive provenienze, impedendo che una diversa interpretazione potesse determinare, non solo una smentita dell’originario principio di “invarianza della spesa”, ma anche e soprattutto un assetto che rischiava, esso sì irragionevolmente, di creare un potenziale vulnus al principio di parità di trattamento, che le amministrazioni pubbliche devono garantire. In tal modo, nella specie ricorrono più di una tra quelle «ragioni imperative di interesse generale» che consentono, nel rispetto dell’art. 6 della Convenzione europea e nei limiti evidenziati dalla Corte di Strasburgo, interventi interpretativi e retroattivi.
In primo luogo, emerge nella norma censurata l’esigenza di “ristabilire” una delle possibili direzioni dell’originaria intenzione del legislatore. Tale direzione aveva determinato l’interpretazione ad essa conforme delle parti sociali, negli accordi stipulati per il primo inquadramento (al contrario di quanto accaduto nel caso Zielinski), poi recepita dalle norme di attuazione fin da tale fase, sia pure nella forma del decreto ministeriale poi ritenuta inadeguata da una parte della giurisprudenza.
In secondo luogo, può ricordarsi come l’intervento del legislatore non abbia vanificato del tutto i diritti sorti ed acquisiti sulla base della legge interpretata, restando intatti quelli al trattamento migliore conseguito dopo l’inquadramento nel nuovo ruolo, mediante la conservazione di un assegno personale.
Inoltre, risulta evidente soprattutto la conformità di tale interpretazione con la finalità di garantire una generale perequazione di tutti i lavoratori del comparto scuola, come peraltro già ritenuto da questa Corte nella più volte ricordata sentenza n. 234 del 2007, nel senso di garantire che a tutti i dipendenti di quel ruolo sia attribuita una medesima progressione retributiva, al di là delle rispettive provenienze.
Pertanto, assume rilievo la sussistenza di una “imperfezione” tecnica, nel contesto normativo originario, consistente nel ritenere comunque delegabile all’autonomia delle parti e ad una disciplina regolamentare la fissazione di un criterio rispettoso del principio dell’invarianza di spesa, in aderenza all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), delega poi ritenuta insussistente dalla giurisprudenza di legittimità.
Non solo, ma, a conforto della ritenuta sussistenza di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, il “diritto vivente” nel 2005 non poteva ritenersi formato sul punto, giacché la questione vedeva fronteggiarsi alcune pronunce di legittimità, assunte a sezioni semplici, che avevano ricostruito il fenomeno nel senso della necessità di atti di inquadramento rispettosi dei principi dettati dall’art. 2112 del codice civile, con altre pronunce che risolvevano la questione sul piano dell’efficacia normativa o meno dell’accordo del 20 luglio 2000, recepito nel successivo, già citato, decreto ministeriale del 5 aprile 2001.
Da ultimo, ed in piena coerenza con la giurisprudenza europea prima ricordata (Forrer-Niederthal c. Germania), risulta determinante il fatto che il procedimento relativo alla vicenda del trasferimento dei dipendenti ATA abbia avuto la garanzia di un processo equo, anche attraverso l’incidente di costituzionalità conclusosi con una dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto a parametri costituzionali coerenti con la norma convenzionale, pienamente compatibile, così interpretata, con il quadro costituzionale italiano.
In definitiva, in aderenza con la ricostruzione normativa già operata da questa Corte in altre occasioni, risulta con chiarezza la compatibilità della norma interpretativa censurata con la giurisprudenza qui rilevante della Corte di Strasburgo, in particolare relativa ai casi Forrer-Niederthal c. Germania, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia e National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito.
Nell’intervento retroattivo in questione è dato, infatti, riscontrare gli elementi valorizzati dalla Corte europea per ritenere ammissibili le disposizioni interpretative, tenendo conto che i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza di quest’ultima costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche, che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata.
Peraltro, fare salvi i «motivi imperativi d’interesse generale» che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo. Le decisioni in questo campo implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, come è stato riconosciuto, ad esempio, con la formula del margine di apprezzamento, nel caso di elaborazione di politiche in materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni normative adottate (come nella sentenza National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, del 23 ottobre 1997).
10.–
In conclusione, il denunciato contrasto fra la norma impugnata e l’art. 6 della CEDU, quindi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non sussiste.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione e dalla Corte di appello di Ancona con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 novembre
2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA

martedì 17 novembre 2009

SIAMO GIUNTI AL DRAMMA

E’ una sorta di ultimatum quanto scritto da un collega ( di anni 65 ) ITP in pensione dal 1.9.2009, il quale mi chiede di rendere pubblica la sua intenzione di essere disposto ad incatenarsi a Piazza Montecitorio, poichè vive con 400 euro al mese .

Testo:
" Dopo che i sindacati ed i politici ci hanno venduto, sono disposto ad incatenarmi a piazza Montecitorio. Il mondo intero deve sapere di questa grande ingiustizia fatta ai danni degli ex dipendenti degli enti locali. Ad alcuni non vengono riconosciuti quattordici o quindici anni di servizio , nonostante i contributi versati "
Ciao.
Raffaele M.

domenica 15 novembre 2009

ATTESE

DAL BLOG ata/itp enti locali
http://blog.libero.it/entilocali/

Post n°607 pubblicato il 15 Novembre 2009 da exentilocali

Amici miei,che brutta l’attesa!Le certezze ti offuscano ed i dubbi ti assalgono, ti attanagliano, ti soffocano, ti logorano.La trepidazione e la paura di non farcela dominano i tuoi pensieri per la consapevolezza che “altri” stanno per segnare in positivo o in negativo la tua vita ed il futuro della tua famiglia.Che brutta quest’attesa!
Che rumoroso silenzio nel BLOG!
Antonio M.

sabato 14 novembre 2009

Per contattare Vincenzo LO VERSO su Face Book,collegarsi
al seguente link :

lunedì 9 novembre 2009

Misteri, sussurri e supposizioni
di Carlo Bertani
Mentre l’udienza presso la Corte Costituzionale ci ha confortati, nel senso che almeno uno spiraglio di speranza pare essersi ragionevolmente aperto, siamo un po’ sospettosi per alcune manovre politico-sindacali che stanno girando attorno alla nostra vicenda.Le prime sono soltanto voci, e come tali dovremo trattarle, ossia con i guanti.Pare – e, sottolineo, pare – che, nei giorni precedenti l’udienza presso la Corte Costituzionale, sia avvenuta presso il MIUR una misteriosa e brevissima riunione, nella quale s’è parlato della nostra vicenda.Ora, ci sembra assai strano che – dopo anni di silenzio – la Triplice sindacale – improvvisamente – si rammenti di noi perduti, dimenticati là nelle finanziarie, dove siamo stati costretti ad accendere dei mutui per rendere allo Stato ciò che una chiara legge dello Stato, anni fa, ci garantiva.Non c’è nulla di male ad interessarsi alla nostra vicenda: la quasi coincidenza delle date, però, insospettisce. Perché nessuno di noi è stato avvertito? A che gioco giochiamo? Vorrebbero essere così gentili, i sindacati “ufficiali”, di confermare o smentire quella riunione? E, se c’è stata, quali sono state le risultanze? Sono stati presi degli accordi? Informali? Sulle nostra teste, senza avvisarci? Aspettiamo una risposta, perché ancora ricordiamo lo “strano” accordo del Luglio 2000, quello che diede alla controparte le armi per attaccarci. Se c’è una legge che garantisce un diritto (124/99) – signori della “Triplice” – non è proprio il caso di farla a pezzi con un “accordo” che la vanifica e complica le cose. Non vi basta come siamo finiti?Vi avvertiamo che questa volta – sarà la disperazione, perché chi ha impegnato la casa è disperato – se ci fate uno scherzo del genere non la passerete liscia. Aspettatevi pure il peggio che riuscite ad immaginare, compreso essere sputtanati ai quattro venti, sui media e sul Web, ed azioni di protesta che vi coinvolgeranno.Altro evento che fa pensare è l’improvviso interessamento del senatore Franco Bevilacqua (PdL, ex AN), il quale ha assicurato ad alcuni colleghi che, presto, depositerà una proposta di legge – probabilmente da inserire in Finanziaria od in un collegato – per “sistemare” definitivamente la nostra vicenda.A prima vista parrebbe una buona iniziativa, ma ci sono alcuni “se” e “ma” che non convincono.Per prima cosa, il prossimo sarà un anno elettorale di quelli importanti: le elezioni regionali saranno non solo uno scontro fra maggioranza ed opposizione ma, soprattutto, un evento che dovrà chiarire i rapporti, per alcuni aspetti molto tesi, interni alla maggioranza di governo. Per come stanno andando le cose, nel 2010 potrebbero svolgersi addirittura le elezioni politiche anticipate: insomma, sul piano della politica c’è molta carne al fuoco.Siccome, in passato, abbiamo contato molte promesse, Ordini del Giorno, ecc – di tutte le parti politiche – che alla fine non hanno prodotto nulla, invitiamo il sen. Bevilacqua ad interloquire direttamente con noi, tramite il nostro Comitato, per farci sapere cosa vuol proporre, come e quando. Ci sembrerebbe il minimo.Il secondo aspetto che non ci convince, riguarda ciò che si sa della proposta: siccome mancano i soldi (non avessimo mai ascoltato questa canzone…) la nostra situazione sarà “sanata” con il tempo. Anni.Questa canzone, non vorremmo che divenisse una romanza, la quale potrebbe terminare quando oramai non saremo solo morti, bensì decomposti.Il procrastinare negli anni la soluzione, non assomiglia tanto alla famosa “temporizzazione” che fu sancita con il pessimo “pasticcio” sindacale del 2000? Il problema sono i tempi: nessuno vuole mettere in dubbio anzitempo la buona fede del Senatore ma, una volta “aperta” la porta che dilaziona nel tempo la soluzione, poi sarà facile allargare le braccia e scusarsi, affermando che “altri” hanno allungato all’infinito la vicenda.Entrambi gli avvenimenti, poi, a “cavallo” della sentenza della Corte Costituzionale, sono per lo meno “curiosi”.Perciò, pur essendo interessati ad interloquire con tutti, fissiamo dei “paletti”: non siamo attirati da soluzioni di facciata, da pasticci di qualsiasi tipo, che possano dare adito a nuove “incomprensioni”, le quali farebbero slittare la soluzione alle calende greche.L’esborso per lo Stato non sarebbe così terribile come raccontano – moltissimi già percepiscono gli stipendi corretti (quelli che hanno avuto sentenze favorevoli o definitive) – e, con le attese entrate dello “Scudo Fiscale”, sarebbero veramente pochi spiccioli.L’unica cosa che non tollereremo più – e questo è bene che lo sappia chiunque desidera veramente aiutarci – è il solito pasticcio di promettere, poi vanificare, di nuovo impegnarsi e poi dileguarsi con un solo scopo: passare la patata bollente al successivo governo. Sono copioni che, oramai, conosciamo a memoria: attenzione, perché anche il cane piccolo, quando si trova all’angolo, morde.Carlo Bertani

UDIENZA DEL 3 NOVEMBRE 2009

PER VEDERE IL VIDEO RELATIVO ALL'UDIENZA DEL 3.11.2009 CLLEGARSI AL SEGUENTE LINK CLICCARE DOWNLOAD DEL FILE

http://www.cortecostituzionale.it/RelazioniCittadini/documentimultimediali/udienze_pubbliche.asp

domenica 8 novembre 2009

NOTIZIE DRAMMATICHE DA VIBO VALENZIA

In ginocchio i circa duecento lavoratori dislocati in provincia stipendi decimati per gli ex dipendenti enti locali passati nei ruoli statali.
Pesanti sforbiciate allo stipendio: sono costretti a restituire le somme percepite dopo l'inquadramento.

Hanno bussato a mille porte, mille porte non si sono aperte.

La loro rabbia è rimasta sempre rabbia.

E li ha logorati dentro.

Gli ex dipendenti degli enti locali transitati nei ruoli dello Stato in seguito al varo della legge 3 maggio 1999, n.124 (76 mila in Italia, circa 3 mila in Calabria e circa 200 nel Vibonese), non sanno più a che santo votarsi per avere il riconoscimento giuridico ed economico del servizio prestato negli enti locali.

La politica, in sostanza, li ha prima illusi facendo intravedere loro la possibilità di una posizione lavorativa meglio remunerata col passaggio nei ruoli statali e, poi, li ha mortificati azzerando i loro diritti (art.1, comma 218, legge 23.12.2005, n.266); la giustizia, poi, li ha umiliati adottando sentenze diverse a parità di condizioni e di competenze; le istituzioni, pur sollecitate più volte, non hanno mai offerto neppure un sostegno morale.

Per assurdo, tra le fila del personale in questione oggi, sempre a parità di condizioni e mansioni, si sono create tre fasce: la prima è quella di coloro che, con sentenza passata in giudicato, hanno avuto l'inquadramento di loro spettanza e non hanno nulla da temere; la seconda comprende i lavoratori che devono restituire somme consistenti per avere avuto l'inquadramento con sentenza favorevole del tribunale, ma non passata in giudicato per l'intervenuta approvazione del comma 218; la terza include quelli che hanno perso il ricorso al tribunale, non hanno mai avuto alcun riconoscimento e hanno sempre percepito circa 400 euro mensili in meno rispetto ai loro colleghi.

Ora, comunque, navigano tutti in brutti acque e, aggrediti dalla disperazione, s'aggrappano ad una proposta di legge presentata l'8 agosto scorso dal deputato lombardo del Pdl Giorgio Jannone e non ancora posta in discussione alla Camera. La stessa chiede l'abrogazione del comma 218, art. 1, legge 23.12.2005, n.266 e, di conseguenza, il giusto trattamento giuridico ed economico dei lavoratori.

Il percorso è lungo.

Emblema dei disagi provocati dalle trattenute sugli stipendi percepiti sono alcuni ex dipendenti enti locali che vivono tra la città e la zona delle Serre.

F. G., 56 anni, sposato e padre di un figlio disoccupato, fa parte della seconda fascia degli ex dipendenti degli enti locali. «Lo Stato – racconta – mi chiede la restituzione di 34 mila euro.

Nello stipendio di ottobre mi sono ritrovato una trattenuta di 443 euro che aggiunta alla rata di un mutuo contratto con una finanziaria fa scivolare il mio stipendio a 418 euro». Una mazzata tremenda anche perché «oltre al fatto che il tenore di vita della mia famiglia – sottolinea l'ex dipendente enti locali – s'è abbassato drasticamente, sono crollati tutti i progetti e io, stretto nella morsa tra avvocati, tribunali e debiti non so dove sbattere la testa».

Ancora più sconcertante la situazione di G. F., pensionato, tre figli disoccupati e di fatto separato dalla moglie anche in conseguenza delle incomprensioni legate alle intervenute difficoltà economiche; si ritrova anche lui a fare i conti con le trattenute sullo stipendio. «Sono andato in pensione con un mensile di 1.200 euro – spiega –. Oggi mi ritrovo con un mutuo di 700 euro per l'acquisto della casa e una ritenuta di 336 euro per 60 mesi. In sostanza devo andare avanti con 200 euro di pensione».

Ma non è solo questo. «La mia famiglia è andata a rotoli – aggiunge il pensionato – Vivo con mia madre, 97 anni, in una casa datami in uso dalla mia ex moglie. Non riuscendo più a far fronte neppure alle piccole spese, è lei che, nei limiti del possibile, mi sostiene economicamente. Le mie relazioni sociali comunque sono finite. Psicologicamente sono crollato. Ho messo in vendita anche la macchina perché non ho come mantenerla». É in attesa che gli venga determinata la trattenuta, anche, un altro ex dipendente ee.ll. che preferisce non venire allo scoperto. «Aspetto – dice – che mi venga comunicata l'entità della mazzata.

Ho due figli, uno studia a Bologna e l'altro a Pisa.
Quasi sicuramente dovrò riportarli in Calabria. É una decisione che m'angoscia, ma che mi pare inevitabile».

venerdì 6 novembre 2009

Vincenzo LO VERSO - FACE BOOK

Se qualcuno volesse scambiare privatamente delle informazioni o documentazioni relative al nostro problema, ho creato un gruppo privato su face book in modo che le informazioni non vengono travisate o mal interpretate.

http://www.facebook.com/home.php#/group.php?gid=51684511965&ref=mf

Enzo


NOTIZIE DA VIBO VALENTIA

Grazie per le preziose info che mi hai mandato : ho già provveduto a ragguagliare il gruppo di Vibo, rappresentato da Mario Iozzo, Itp presso L'istituto per Ragioneria di V.V.Questi mi ha anche aggiornato come segue : Il senatore Franco Bevilacqua, sempre di VV, facente parte della Commissione Cultura del Ministero P.I. ed ex collega di Matematica del mio Liceo Scientifico, ci ha garantito che la nostra decennale questione sarà portata al prossimo O.d.G. per un emendamento nella finanziaria.

Pare che ci sia la voglia di mettere fine a questo guazzabuglio non tout court , ma dilazionato nel tempo . poiché non hanno la disponibilità economica.

Non dovranno pertanto restituire i soldi coloro i quali hanno avuto le sentenze positive, e progressivamente anche gli altri saranno sistemati.Questo è quanto abbiamo saputo anche con l'ausilio dei sindacati Cisl. Si è accesa un po’ di speranza anche alla luce di quanto letto in relazione alla Corte Cost.Spero che tutto sia vero, comunque ti aggiornerò successivamente sullo sviluppo della situazione.

RINGRAZIAMENTI

Alla C.a avv. Sullan

Riteniamo, comunque andranno le cose alla Corte Costituzionale, di dover ringraziare l’avv. Isacco Sullam ed il collegio degli avvocati che hanno perorato la nostra causa, soprattutto per l’impegno mostrato e la cortesia nell’informarci.
Dopo anni trascorsi ad ascoltare promesse su promesse, questa – da sola – è già una buona notizia.

Grazie

Vincenzo Lo Verso

giovedì 5 novembre 2009

RELAZIONE AVV. SULLAM

Egregio Signor Lo Verso,

informo Lei - e Suo tramite - tutti i Suoi colleghi ATA ex EE.LL. (autorizzando fin d'ora la pubblicazione di questa e-mail sui blog) dello svolgimento dell'udienza di ieri 3 novembre avanti la Corte Costituzionale, nella quale è stata discussa la questione di legittimità del comma 218 in relazione all'art. 117, comma 1 della Costituzione.

Il giudice Tesauro ha fatto una relazione sintetica, ma precisa della questione.

Quindi, nell'interesse della Signora Poncina, ho prima parlato io, mettendo in rilievo i punti deboli delle memorie depositate dall'Avvocatura Generale dello Stato, e poi ha continuato il collega Zampieri di Schio, autore del ricorso e di tutte le difese della lavoratrice di Venezia, che ha illustrato con precisione il conflitto del "famigerato" comma 218 con i principi stabiliti dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che non consente allo Stato di emanare leggi retroattive per influire sull'esito dei processi in corso, come nel nostro caso), Convenzione richiamata appunto dall'art. 117 della Costituzione.

La Corte ha seguito con attenzione la nostra esposizione.

Ha quindi preso la parola l'Avvocato dello Stato, che - in difficoltà sul piano giuridico - ha svolto una difesa tutta "politica" del diritto dello Stato di emanare leggi "interpretative" per salvare il bilancio senza dover subire alcuna interferenza da parte della CEDU.

Questo è stato lo svolgimento dell'udienza, dal quale - ovviamente - non si può trarre alcuna previsione sulla decisione della Corte.

Allo stato, quindi, sono del tutto fuor di luogo le anticipazioni o "indiscrezioni" positive che "girano" sul blog.

L'unica nota positiva, ripeto, sta nell'attenzione prestata dai giudici all'esposizione delle nostre difese, che ci siamo sforzati di rendere nel modo più chiaro ed incisivo. Ma da ciò non deriva alcuna previsione sul contenuto della futura sentenza, che dovrà pronunciarsi su una questione molto delicata.

Ciò detto, Le preciso anche che il rigetto - da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che ha sede a Bruxelles - della questione posta dal Giudice Mascarello del Tribunale di Milano NON ha alcun rapporto con i ricorsi proposti da me e da alcuni altri colleghi di Milano avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha sede a Strasburgo.

Questi ricorsi vertonosulla stessa questione discussa ieri in Corte Costituzionale: la violazione del diritto alla "parità delle armi" tra le parti e al "giusto processo", stabilito dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, da parte dello Stato Italiano, che ha emanato il "comma 218" per far soccombere gli ATA che gli avevano fatto causa.
La Corte di Starsburgo NON si è ancora pronunciata e ci vorrà parecchio tempo ancora per avere una sentenza.

Speriamo in bene e cordiali saluti,

Avv. Isacco Sullam


mercoledì 4 novembre 2009

CAUTO OTTIMISMO

Nando B. scrive : 04 novembre alle ore 12.27
Forse stavolta i nostri nemici storici (sindacati e partiti) li abbiamo "sconfitti".
Ieri mattina ero presente (unico) in Corte Costituzionale l'adrenalina si toccava con mano e anche quella dei nostri bravissimi avvocati....L'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo non ha potuto far altro che arrampicarsi su uno specchio di dati sbagliati.....
Peraltro era stato spiazzato sopratutto dalla relazione molto positiva a mio giudizio del relatore della Corte dott. Tesauro.
Ha ragione Vincenzo aspettiamo con ottimismo ed io che ero la vi assicuro che c'è da essere ottimisti!
Propongo un grande applauso virtuale ai nostri legali Campesan, Mondin ,Salerni ,Zampieri....... che torno a ripetere sono stati BRAVISSIMI. Saluti a tutti. Vi darò notizie man mano!
Nando da Roma.

PER I COLLEGHI DELLA PROVINCIA DI CAMPOBASSO

CARI COLLEGHI, E' CON GRANDE DOLORE CHE VI ANNUNCIO LA MORTE DEL NOSTRO COLLEGA ED AMICO A.A. EX DIPENDENTE DELLA PROVINCIA FRANCO ARMANETTI ( ANNI 52 ) AVVENUTA OGGI. I FUNERALI SI TERRANNO DOMANI 5 NOVEMBRE ALLE ORE 15,00 NELLA CHIESA MADRE DI VINCHIATURO ( CB ) .
Roberto DE CRISTOFARO

DA ENZO

Ieri, 3 Novembre 2009, di fronte alla Corte Costituzionale c’è stata la tanto attesa udienza che riguarda la nostra causa…oramai…decennale!
L’impressione che ha ricavato chi era presente conduce ad un cauto ottimismo: sia il Relatore della Corte, sia – ovviamente – i nostri legali, hanno usato parole chiare, semplici, per spiegare quella che a tutti gli effetti è solamente una grande ingiustizia.
Tutte le indicazioni fin qui giunte conducono ad un cauto ottimismo, anche perché sono state tante le delusioni e non vorremmo che questa fosse solo una della serie.
Per ora, quindi, solo impressioni: molto positive senz’altro, ma nulla più.
Ricordiamo che, a differenza delle molte promesse fatte da tutti i governi e mai mantenute, un’eventuale sentenza a noi favorevole (attesa per il mese di Dicembre) chiuderebbe definitivamente la questione a nostro favore.
Aspettiamo, ricordando un antico proverbio: “non dire quattro se non l’hai nel sacco.”

enzo

martedì 3 novembre 2009

INDISCREZIONI - DA ENZO

Ciao ragazzi,
ho chiamato il numero che avevo per poter saper qualcosa di preciso per l'udienza di stamani.
Mi ha risposto la segretaria di Sullan ed mi ha riferito che stamani i nostri avvocati hanno messo sotto scacco il Re.
Ora c'é solo d' aspettare che la CORTE COSTITUZIONALE emetta il verdetto.....per i tempi si presume sotto le Feste di Natale.
Speriamo che sotto l'abero ci sia un meraviglioso regalo

" Giustizia e Dignità"
Dalle prime impressioni visto l'adrenalina a mille dell' Avv. Sullan dove ha esposto il nostro problema per filo e per segno sembrano positive.
Speriamo in bene la speranza é ultima a morire.
Ho richiesto all'avvocato una breve nota dell'incontro di stamani per i prossimi giorni.
Enzo.